Dopo lo sbarco degli alleati avvenuto nell’estate del 1943 e la ritirata delle truppe tedesche in Sicilia la guerra era finita, anche se continuava nel resto dell’Italia. Avevo 8 anni ed avevo completato la terza elementare. Il governo alleato aveva tolto l’ammasso del grano e il commercio del pane e della farina erano tornati liberi. L’ammasso del grano era l’obbligo per gli agricoltori di consegnare tutto il frumento raccolto allo stato il quale provvedeva a distribuire il pane e la pasta razionati, cioè tanti grammi a persona ogni giorno, mediante le tessere.
Mio nonno, era il mese di giugno, raccolto il grano, provvide a macinarlo e inviò, con don Vincenzo “U Castigghiunisi”, alcuni sacchi di farina alla nostra famiglia. Scaricati i sacchi, mio padre e mia madre mi misero sul carro e mi mandarono da mio nonno e da mia zia per passare le vacanze estive con loro. Viaggiammo tutto il pomeriggio e tutta la notte percorrendo quasi 60 Km. Ero eccitato e felice per la nuova avventura che stavo per affrontare. Avrei trascorso tutte le vacanze con mio nonno e mia zia Maria. Dormii coricato sul tavolato del carro, coperto dai sacchi di farina vuoti, mentre questo sobbalzava ad ogni asperità della strada.
Durante il viaggio il pensiero correva a mio nonno ed a mia zia. L’ultimo ricordo che avevo di mia zia Maria, che non si era sposata e che viveva con mio nonno, era struggente. Doveva nasce la mia sorellina ed io ero ammalato di tosse convulsiva (allora la pertosse veniva chiamata così per via dei suoi attacchi terribili e convulsivi e non esisteva la vaccinazione). Così i miei genitori mi avevano portato da lei per non contagiare la piccola, quando sarebbe nata, perché avrebbe rischiato di morire (ma io tutto questo non lo sapevo). Ricordo quei terribili attacchi di tosse che mi squassavano il petto e tutto il corpo, ricordo mia zia che mi stringeva a sé, piangendo in quanto soffriva per la mia sofferenza e non poteva fare nulla per lenire o calmare quegli attacchi di tosse.
Arrivammo all’alba, erano tutti svegli e ci aspettavano. Ricordo ancora come mi accolsero tutti festanti. C’era tutta la servitù. Donna Apollonia, l’anziana serva che lavorava in casa del nonno la mattina e che il pomeriggio tornava a casa propria (doveva attraversare soltanto la strada perché la sua casa era proprio di fronte al palazzo di mio nonno). C’era Vincenza, che era a servizio pieno e dormiva nella casa del nonno. C’era Maria, una ragazzina quattro anni più grande di me e che dormiva anche lei nella casa. Apparteneva ad una famiglia con nove figli e sua madre l’aveva affidata a mia zia perché le desse un aiuto in casa, ma principalmente affinché loro avessero una bocca in meno da sfamare (erano tempi molto tristi). C’era don Filippo che veniva la domenica e si occupava di coltivare l’orto e fare tutti i lavori pesanti.
Mio nonno viveva in un gran palazzo costruito in pietra lavica, ai margini del paese, che si proiettava in mezzo alle campagne. Salii a casa, la ricordavo appena, l’ultima volta che l’avevo vista era stato prima della guerra. La casa era stata gravemente danneggiata dai bombardamenti e ancora non era stata completamente riparata, pertanto non era completamente agibile. Aveva di tutto. A piano terra c’era la cantina, il granaio, la carbonaia, la legnaia, la falegnameria (per uso proprio), la stanza del forno (il pane si faceva in casa) e tanti magazzini. Nel cortile c’era un grande pollaio e dietro il pollaio c’era la stalla e l’ovile in cui stazionavano le capre. Una serie di casette, sempre di proprietà di mio nonno, circondavano la casa. In queste case abitavano diverse persone che per il lavoro dipendevano direttamente o indirettamente da mio nonno che veniva chiamato da tutti il cavaliere.
Al primo piano della casa c’erano una infinità di camere le quali stavano quasi sempre chiuse, ad eccezione delle camere da letto. Tutta la vita si svolgeva in cucina. Una grande cucina dove si viveva tutto il giorno. In un angolo i fornelli, sia quelli piccoli a carbone, che quelli grandi a legna con delle grosse pentole di rame. Sulla parete accanto, sotto la finestra, c’era il ripiano delle “quartare” (i recipienti con cui si portava l’acqua in casa, non c’era l’acqua corrente) ed i “bagani” (le vasche in ceramica smaltata verde nei quali si lavavano i piatti e le stoviglie). Sulle altre due pareti si trovavano tanti armadi. Al centro c’era una grande tavola dove pranzavano mio nonno e la sua famiglia. Un po’ più distante c’era la “buffetta” un’altra tavola anch’essa abbastanza grande, ma più bassa, sulla quale mangiava la servitù. Alla cucina si accedeva dalla scala di servizio. In pratica tutti entravano e uscivano da questa scala perché la “scala grande” stava sempre chiusa.
La sera del giorno in cui sono arrivato eravamo tutti seduti a tavola e la mia testa, a causa della stanchezza e del sonno, come ho detto avevo passato tutta la notte sul carro, “ciondolava nel piatto”. Così mia zia diede disposizione a Maria di portarmi a letto.
Quell’estate la trascorsi tutta in casa di mio nonno. La vita veniva scandita dal suono delle campane del vicino Convento. La mattina all’alba le campane del convento dei frati Cappuccini suonavano la sveglia, a mezzogiorno suonavano una seconda volta e ci si sedeva a tavola. Quando ci si sedeva per pranzare, nella grande cucina, mio nonno stava seduto a capo tavola ed a me era stato assegnato il posto di fronte a lui, all’altro capo tavola. Mi spiegarono che essendo morto l’unico figlio maschio di mio nonno ed essendo io il nipote maschio più grande, quando ero presente, questo secondo posto d’onore toccava a me di diritto e nessuno poteva occuparlo. Mia madre, scherzando, ogni tanto mi diceva che io ero cresciuto con il complesso del “maggiorascato”. La sera, al tramonto del sole, quando la campana del convento suonava l’Ave Maria, mio nonno, mentre le donne preparavano la cena, iniziava la recita del rosario, ma io avevo il permesso di continuare a giocare in cortile. Al termine del rosario tutti, sia la famiglia che la servitù, ci si sedeva per mangiare, ciascuno alla sua tavola.
Dietro il palazzo c’era un grande cortile e oltre il cortile si estendeva la proprietà di mio nonno (veniva chiamato il mandorleto in quanto era destinato prevalentemente alla produzione di mandorle) e c’erano anche le campagne di altri parenti dove io potevo girare e scorazzare liberamente. A fianco del cortile c’erano vari magazzini, la stalla con il fienile, e l’ovile per le capre. C’erano anche delle case nelle quali abitavano varie persone, tutte, più o meno, legate da rapporti di lavoro con la famiglia di mio nonno. Io giravo a destra e a manca, entravo e uscivo da quelle case, assaggiavo quello che loro cucinavano, giocavo con le ragazzine in quanto i ragazzi erano tutti al lavoro oppure in campagna.
Mio nonno mi aveva posto due soli limiti: potevo uscire dal cortile, ma non dovevo giocare per la strada e non dovevo superare i confini della proprietà sua e dei parenti, ma questi confini si estendevano per circa cinque km per cui avevo molta libertà. Io ho sempre rispettato queste due limitazioni. Per il resto mi sentivo un principe.
Maria per buona parte della giornata doveva dedicare il suo tempo a me. In pratica la mattina completata la pulizia delle stanze da letto poteva veniva a giocare con me fino a quando veniva chiamata per accendere il fuoco per il pranzo del mezzogiorno. Così pure il pomeriggio, riordinata la cucina, tornava a stare con me fino a quando le campane del convento dei cappuccini suonavano il vespro e doveva accendere nuovamente il fuoco per la cena. I ritmi della giornata e le faccende domestiche, come ho detto, erano scanditi dal suono delle campane.
Di giorno con Maria giravamo e correvamo per la campagna e per le colline. Lei si arrampicava sugli alberi per raccogliere fichi, mandorle, ancora non completamente mature che mangiavamo con tutto il mallo, raccoglieva anche le azzeruole, ed altri frutti.
Quando Maria era occupata a casa, e io ero solo, andavo nelle case dei vicini. Le mamme mi accoglievano volentieri nella loro casa e mi accontentavano in tutto quello che chiedevo. I bambini piccoli mi guardavano a rispettosa distanza, non c’erano ragazzi maschi della mia età in quanto erano al lavoro, nei campi con il loro padre, oppure andavano dal “mastro” ad imparare un mestiere. In giro c’erano solo ragazzine della mia età o poco più grandi che facevano a gara per coccolarmi o per farmi dei regalini. Catturavano grilli e farfalle da dare da mangiare ai miei uccelli, mi regalavano un sasso strano o colorato, un pezzo di specchio rotto, una zappetta rotta e sgangherata con cui scavare la terra o un pezzo di stoffa. Cose bellissime per quei tempi, cose che oggi è difficile capire. Talvolta veniva qualche altra ragazzina di un altro quartiere e guardandomi si dicevano sottovoce “è il nipote del cavaliere”.
Talvolta chiedevo alla zia il permesso di fare venire le ragazzine a giocare con me nel cortile oppure sull’aia dove veniva trebbiato il grano. Ero l’unico maschio sempre con tante ragazzine attorno. Vincenza, la persona di servizio mi prendeva in giro dicendo che tutte le ragazzine erano innamorate di me e io mi arrabbiavo. Ne ricordo una la quale, quando poteva, stava sempre vicino a me e mi copriva di attenzioni. Sua madre la chiamava sempre “fai questo, fai quello, vai a prendere questo, vai a portare quello”, e lei ubbidiva sempre in silenzio. Qualche volta mi diceva “mi aiuti – oppure – mi accompagni” ed io cercavo sempre di accontentarla in quanto le leggevo negli occhi il dispiacere di doversi allontanare da me. Ricordo che, quando nessuno ci vedeva, mi carezzava i capelli e il viso, ma io non capivo … un’altra volta, mentre eravamo sull’aia a giocare e a rotolarci sulla paglia mi abbracciò e mi diede un bacio sulla guancia … quella volta capii, ma la mia mente era presa da Maria …
Tutto questo in genere avveniva la mattina. Anche il pomeriggio Maria, dopo avere sparecchiato la tavola e lavato i piatti, mi teneva compagnia. Finito di mangiare io scendevo in cortile e poco dopo lei mi raggiungeva. Insieme, noi due soli, giravamo dappertutto. Per la campagna, nei magazzini, nella stalla.
Post Scriptum – Poi, più tardi, al ginnasio e al liceo, studiando le poesie di Leopardi, mi tornavano alla mente quei luoghi, quei campi, quelle colline, tutte le persone che mi circondavano e che mi volevano bene. E, ancora oggi, le due immagini (quella reale, scolpita in maniera indelebile nella mia mente, e quella virtuale che questa poesia rappresenta nella mia immaginazione) si associano e si fondono … e nostalgici ricordi affiorano …
L’infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Giacomo Leopardi