di Luigi Asero

 

Mi dimetterò come leader del Partito conservatore il 7 giugno“. Poche semplici parole pronunciate da Downing Street dalla premier Theresa May che ha fallito nell’oneroso compito di transitare il Regno Unito verso la Brexit. Per lei, leader del Partito Conservatore, il “profondo rammarico” di non aver potuto attuare la Brexit precisando, ottimista forse, che toccherà al suo successore guidare il Regno nel delicato passaggio, non prima di aver trovato in Parlamento “il necessario consenso”.

Qui, si dice da noi, “cade l’asino”. Il Regno Unito ha già più volte mostrato la profonda spaccatura tra un popolo che vuol staccarsi dall’Unione Europea e per questo ha anche votato al referendum del 2016 e una classe politica imbrigliata in un gioco di ruolo internazionale che la mantiene invece salda alla UE.

La May ha rivendicato l’operato degli ultimi anni nei quali, pur di transitare senza grandi patemi il suo popolo verso l’indipendenza dall’Istituzione europea afferma “Abbiamo aiutato più persone che mai ad assicurarsi un lavoro. Stiamo costruendo più case ed aiutando chi compra casa per la prima volta così che anche i giovani possano avere le opportunità che hanno avuto i loro genitori. E stiamo tutelando l’ambiente, eliminando i rifiuti di plastica, affrontando i cambiamenti climatici e migliorando la qualità dell’aria. Questo è ciò che un governo conservatore moderato e patriottico può raggiungere, anche mentre affrontiamo la più grande sfida in tempo di pace che qualsiasi governo abbia mai affrontato”.

Theresa May è stata, dopo Margaret Hilda Thatcher, la seconda donna a ricoprire il ruolo di premier del Regno Unito e con queste parole si è congedata “Lascio l’incarico che è stato l’onore della mia vita, la seconda donna premier, ma certamente non l’ultima. […] La nostra politica potrà essere in difficoltà, ma c’è così tanto di buono in questo Paese, così tanto di cui essere orgogliosa […] -con una commozione visibile (foto) ha concluso – enorme gratitudine per aver potuto servire il Paese che amo

Il probabile successore alla guida del Partito Conservatore, già ex ministro degli Esteri, Boris Johnson, dice senza mezzi termini che la sua è una dichiarazione dignitosa ma che ha fatto bene a dimettersi. Johnson è da sempre fautore di una “hard brexit”. Una fuoriuscita traumatica che non potrebbe però far bene al Paese.

Sul fronte europeo Jean-Claude Juncker non si dice rallegrato ma precisa che “stabilirà relazioni di lavoro con il prossimo primo ministro, chiunque sia, senza smettere di parlare con Theresa May. La nostra posizione sull’accordo di ritiro non cambia“.

La Brexit continua a tenere accesi i riflettori e appare quasi come una maledizione. Proprio ieri nel Regno Unito si è votato in maniera assolutamente disordinata per le Europee 2019 e non pochi sono stati i problemi ai seggi in tutto il Paese. Tanti cittadini dell’Ue che vivono in Gran Bretagna hanno denunciato di non aver potuto votare a causa di disguidi amministrativi. Il Guardian ha ricevuto più di 100 mail nel giro di poche ore da cittadini europei. Tra di essi una famiglia irlandese che denuncia che le è stato negato il diritto di votare a Liverpool nonostante i cittadini irlandesi siano trattati come cittadini britannici e possano votare in tutte le elezioni senza richieste speciali.

Eppure il Regno Unito elegge 73 eurodeputati su 751, eurodeputati che resteranno in carica fino al giorno dell’uscita del Regno Unito (che tuttavia non è assolutamente certa, visto che Londra fino al 31 ottobre può sempre ripensarci), e decadranno quello stesso giorno. La data di scadenza nuova è quindi il 31 ottobre. E in questo clima internazionale “fluido”, non solo meteorologicamente parlando, tutto può accadere in Europa.

Le lacrime di Theresa May potrebbero presagire una sconfitta cocente, non solo personale, in pratica una no-brexit, come presagito dallo scrivente all’indomani del referendum del 2016.

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Mi piace ascoltare, non semplicemente sentire. Il dialogo non è "parlare" ma consentire alle anime di incontrarsi

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