sorrydi Luigi Asero

Chiedo scusa, ho sbagliato, volevo solo…“. Quante volte abbiamo sentito o letto quest’espressione? Molte, tantissime. Ormai troppe. Leggere la cronaca di questi ultimi mesi è quasi inutile. A ogni azione eclatante, seguita dall’arresto di un colpevole rileggiamo sempre la stessa frase. Come un mantra, ripetuta ossessivamente. 

L’abbiamo letta fino a ieri a proposito dell’aggressore al capotreno di TreNord cui è stato praticamente amputato un braccio soltanto per aver chiesto di poter verificare il titolo di viaggio “Chiedo scusa, volevo solo spaventarlo, non volevo”. L’abbiamo letta sulla cronaca di Roma quando un presunto 17enne rom è stato catturato dopo aver falciato otto persone alla fermata Battistini, l’abbiamo letta sulla cronaca di Palermo quando a essere catturato è stato il palermitano che aveva ucciso la giovane mamma Tania, di 31 anni, colpevole di andar a lavorare attraversando sulle strisce pedonali, l’abbiamo letta sulle cronache di Milano quando a essere fermato è stato l’aggressore di un agente di Polizia preso a calci durante la manifestazione contro Expo, l’abbiamo letta sulla cronaca di mille e mille atti di bullismo quando un ragazzino è stato “gonfiato” col compressore o quando una ragazzina è stata indotta al suicidio per aver diffuso immagini osè carpitele malevolmente.
Ora forse è il caso di iniziare a mettere i classici puntini sulle classiche “i”.

Si chiede scusa quando, a causa di una distrazione veramente non intenzionale, si commette un atto che lede l’integrità di un’altra persona. Non quando si guida dopo il ritiro della patente, dopo aver bevuto alcool o dopo essersi drogati, non dopo aver ucciso per sfuggire a un controllo delle forze dell’ordine.
Esigere che in questo Paese inizi a regnare un po’ di ordine pubblico non è ideale né di destra né di sinistra, ma solo un’idea di buonsenso.
La sacrosanta libertà di ogni individuo non è illimitata, essa finisce nell’esatto confine in cui il suo esercizio limita la libertà di un altro individuo. Chiunque esso sia.

E poi non dimentichiamo che la tolleranza che si deve adottare in ogni caso non può, mai, diventare arroganza della controparte che facendosi forte della tolleranza dell’opinione pubblica può sentirsi assolto appena dice di essersi pentito. Pentirsi può voler dire soltanto che si è pronti a subìre la giusta condanna per espiare la propria colpa, coscienti (condannante e condannato) che nessuna espiazione potrà restituire quanto è stato tolto per sempre. Pentirsi non può però, mai, significare che basta questo per pagare sensibilmente meno il proprio conto alla giustizia.

Infine una nota per la classe forense. Spesso si tratta di processi svolti con il gratuito patrocinio, comprendiamo la difficoltà di scelta di una linea processuale più seria. Ma per favore cari avvocati penalisti, smettete di far dichiarare ai vostri assistiti sempre la stessa frase a “copia e incolla”. Non sono pentiti, lo sappiamo. E speriamo lo comprendano fino in fondo anche le Corti d’adesso in poi.

Sì, non piacerà a buonisti questo discorso, non piacerà a chi si fa sempre “bello e garantista” con il dolore degli altri. Ma a questi ultimi non chiederemo scusa per quanto qui affermato. Stiano sereni.

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Mi piace ascoltare, non semplicemente sentire. Il dialogo non è "parlare" ma consentire alle anime di incontrarsi

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